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  Johann Sebastian Bach

 

“Bach è la fine. Nulla procede da lui, tutto conduce a lui”. Fino ai primi decen­ni del nostro secolo, l’immagine dominante di Bach era quella conclusiva sintetizzata nel 1908 da Albert Schweitzer. Altissima, certo, ma con gli sbocchi di un binario morto.

A partire dagli anni Cinquanta, muovendo dalla bachianità degli ultimi Mozart e Beethoven, dai loro ritorni pensosi a Johann Sebastian, prese coraggio un’idea oppo­sta: che Bach, per la musica nuova del vecchio mondo, fosse l’inizio di tutto, e che la sapienza combinatoria del suo contrappunto potesse spingersi fino a spiegare le origi­ni della dodecafonia, del pensiero seriale, della variazione continua.

Ma che tutto provenga da Bach è un’affermazione che si può concedere a un idealista con biglietto di sola andata. Musica e documenti alla mano, vi furono grandi ai quali, per almeno due terzi della loro produzione, fu possibile fare a meno di lui, esplicitamente. Ma con una certa puntualità  è vero che a Bach tornano in molti, come a una specie di centro della musica, a un Grande Basso poundiano.

Beethoven ritrovò Bach nel suo ultimo pianoforte e nei suoi ultimi Quartetti, e anche nel Mozart degli anni 1889-91 tracce non sotterranee portano a Johann Sebastian. Nella sua cosiddetta svolta neoclassica, Stravinsky ammetteva: “Il nitore e la lucidità delle Invenzioni di Bach costituivano a quel tempo un mio ideale, e in ogni caso mira­vo a conservare tale qualità in massimo grado nelle mie composizioni”. Oggi perfino un jazzman come Keith Jarrett disciplina le sue dita piene di note “blue” sul Clavicembalo ben temperato e sulle Suites francesi.

Anche allontanandoci dal giardino della musica, ma per addentrarsi in quello confinante dell’arte figurativa come l’intendevano alcuni che per combinazione sape­vano suonare, incontriamo quel nome fatto simbolo estetico. Nel Kn, aureo libretto del 1935, Carlo Belli, roveretano come Depero, scrittore e critico, giovanile compagno di musica dello scultore Fausto Melotti (musicalissimo astratto del nostro secolo) e delle sorelle Lidia e Renata (quest’ultima futura Pollini, madre di Maurizio), scriveva il secco paradosso: “Bach sì. Beethoven no”. Il Kn di Carlo Belli venne riconosciuto subito, ancor prima che la corrente si affermasse, come L’evangile de l’arte dit abstrait, il vangelo dell’arte astratta. Da chi? Da Vasilij Kandinskij.

Che cosa significhi quel motto, basta guardare le sculture di Melotti, i quadri di Klee, di Kandinskij e anche di Mondrian, forse, per intenderlo.

Non tutto proviene da Bach, ma su molte cose che restano vigila una sua sovrin­tendenza.