luglio 2003
SARDINIA POINT INTERVISTA I LA CRUS
di Mauro Caproni
I La Crus sono un gruppo fondamentale nell’asfittico panorama italiano della musica d’autore.
Esplosi letteralmente nel 1994 con il disco omonimo, hanno contribuito in modo decisivo al recupero di cantautori del passato del calibro di Piero Ciampi, Luigi Tenco e Jacques Brel, che con la band milanese tornano ad essere ascoltati senza pregiudizi, grazie ad un intelligente lavoro di riarrangiamento in studio che unisce alle mitiche melodie della tromba, create da Paolo Milanesi, suoni in stile noise e dilatate atmosfere elettroniche.
E’ uscito da poco il loro quinto disco, “Ogni cosa che vedo”.
Sardiniapoint ha intervistato il cantante Mauro Ermanno “Joe” Giovanardi in occasione della tappa cagliaritana del Tora! Tora! Festival, kermesse musicale itinerante ideata da Manuel Agnelli.
Il vostro ultimo album, “Ogni cosa che vedo”, è un’ulteriore virata verso l’elettronica. Un’elettronica minimale ricca di campionamenti presi dai Dining Room (il progetto alternativo di Cesare Malfatti, autore delle musiche dei La Crus, insieme al dj Stefano Ghittoni) e di arrangiamenti creati per l’occasione da Gionata Bettini, programmatore molto apprezzato nel lavoro in studio.
E stata una scelta ben precisa, l’idea era quella di mantenere la nostra identità creando delle canzoni che avessero una certa sospensione, una dimensione eterea. Anche le collaborazioni con lo scrittore Marco Lodoli e Mariangela Gualtieri e il lavoro sulla stesura dei testi andava in questa direzione. Siamo soddisfatti di quanto è venuto fuori. E infatti è il disco che ci ha preso più tempo in studio. A parte L’urlo (il primo singolo, n.d.r.) che può sviare un pochino, e che ci ha dato qualche problema con la Wea perché noi avremmo scelto un altro brano. In effetti nell’ossatura dell’album ci sta benissimo ma non ne rende bene l’idea. Tutti gli altri episodi del disco hanno più fascino.
Voi non siete nuovi a sperimentare. Già nel 1996 avete affidato le vostre canzoni ai manipolatori di suoni che andavano (e continuano ad andare) per la maggiore, per un disco di remix.
Si, con Roberto Vernetti, Madaski, Almamegretta, Casino Royale e Technogod abbiamo dato vita a un esprimento interessante che non aveva ancora progettato nessuno. In quel periodo andava di moda farsi remixare i pezzi dai dj “discotecari”, per cui la nostra scelta andava un po’, se si può dire, in controtendenza.
Tornando all’ultimo album, mi sembra un lavoro che raccoglie in sè le caratteristiche peculiari presenti nei vostri vecchi album. Parlo dei testi, delle atmosfere e del tuo personalissimo modo di cantare.
In parte è vero, c’era la voglia di recuperare atmosfere che avevanmo abbandonato, per cui non è sbagliato definire “Oni cosa che vedo” una fotografia di quanto abbiamo fatto finora. Anche certi modi di scrivere ricordano qualcosa del primo album, magari un contesto di maggiore leggerezza e sospensione. Mi piace tirare in ballo Calvino qundo parla di leggerezza del sogno .Mi ha intrigato moltissimo. La nostra sfida però è stata quella di far convivere le nostre radici, il nostro background che parte dal postpunk, arriva con varie mutazioni all’elettronica e recupera canzone d’autore. In questa direzione, se un pezzo emblematico in passato poteva essere “Come ogni volta”, oggi con “Voglio avere di più” siamo andati ancora più a fuoco, quasi all’estremo. Elettronica a farla da padrone e testo che si sposa alla perfezione con la musica.
A proposito di testi, c’è una canzone nel disco, “Avremmo mai potuto?”, che presenta temi finora a voi sconosciuti. Un bellissimo ritornello che recita: “Se c’è un’arma c’è anche un’idea che la può fermare”. Quando l’hai scritta, hai pensato alla situazione attuale?
Mah, non so, ci piaceva che questo disco avesse uno sguardo più rivolto verso il mondo. Tematiche fino ad oggi molto distanti dal nostro immaginario. Noi cerchiamo sempre di dare una concettualizzazione ai nostri dischi. “Dentro me” è un disco intimo che gettava un occhio dentro di noi, “Dietro la curva del cuore” esplorava il rapporto di coppia, ero uno sguardo verso l’altro, “Crocevia” uno sguardo al passato. Ci stuzzicava l’idea di confronatrci con qualcosa di nuovo, anche se il rischio era di cadere nella retorica. Penso l’abbiamo evitato.
Io non sono d’accordo con quanti affermano che i testi dell’ultimo disco siano più accessibili rispetto al passato…
Hai ragione, è un percorso iniziato prima, con “Dietro la curva del cuore”, quando ci siamo detti: cerchiamo di essere meno snob, affrontiamo temi del quotidiano senza perdere il lato poetico della nostra musica. Non era facile fare un disco che parlasse d’amore senza la classica rima cuore/amore e, complici dei testi realmente più alla portata di tutti, siamo riusciti nell’intento. Addirittura penso che nell’ultimo lavoro ci siano alcuni pezzi che rappresentano un passo indietro, più “snob” e introversi, rispetto a quell’album.
Mi sembra che stiate utilizzando meno la tromba di Paolo Milanesi, autore di assoli mitici nei vostri vecchi dischi, soprattutto in “Dentro me”. Una scelta o casualità?
No, è una scelta iniziata già con “Crocevia” perché, soprattutto dopo i primi dischi, nei concerti utilizzavamo la tromba anche per riprodurre suoni che in studio ottenevamo diversamente, magari con qualche strumento che non ci portavamo sul palco. Considerato che on stage continuiamo a usarla molto, abbiamo deciso di sfruttarla meno nei dischi.
Siete stati il primo gruppo a coniugare sperimentazione e ricerca elettronica col recupero della musica d’autore. Altri vi hanno seguito, per esempio i Tiromancino, Max Gazzè, in parte Niccolò Fabi e Silvestri. Secondo te la strada che avete intrapreso per primi rappresenta il futuro per i cantautori italiani?
Sono contento di questo riconoscimento, direi che un po’ è inevitabile. Capita sempre in tutte le cose, per esempio nella moda. Quelle cose che all’inizio sono avanguardistiche, poi diventano pian piano di uso comune. Quindi è normale che oggi ci siano più gruppi e artisti che usano l’elettronica. Tornando alla moda, i punk con la cresta nel 1977 a Londra erano una novità assoluta, poi questo look è diventato alla portata di tutti. Per la musica stesso discorso. Dal 1970 i cantautori classici si accompagnano solo con chitarra acustica e piano, e da qui non si smuovono. Prima o poi doveva accadere che le nuove generazioni andassero in un’altra direzione.
A dir la verità, non tutti i vecchi cantautori sono così ancorati al vecchio schema. Fossati per esempio mi sembra più aperto ai cambiamenti, mi risulta sia andato per curiosità a Nizza Monferrato in occasione del Tora! Tora! Festival rimanendo assai colpito da gente come Cristina Donà e Subsonica%u2026
Penso che per la vecchia guardia osservare le nuove realtà possa servire come stimolo. Per me sperimentare dovrebbe essere un dovere. Per esempio l’idea iniziale dei La Crus nel 1991, quando sono nati, era quella di utilizzare la tecnologia dell’hip-hop, prendendo cioè come base campioni di altri brani cercando però di cantare invece che rappare. Per questo il nostro esordio suona così particolare. Lavorare a ogni pezzo allora era una scoperta. Nell’agosto del ’94, quando stavamo mixando l’album Marco Sapienza, giornalista e marito di Cristina Donà ci fece ascoltare un nastro dei Portishead, e noi è stata una folgorazione. Il sapere che a più di 1000 km di distanza un gruppo straniero di grande successo aveva utilizzato, con le dovute proporzioni, la nostra stessa tecnica, ci ha convinto definitivamente che eravamo sulla strada giusta.
Sono passati pochi mesi dalla pubblicazione di “Ogni cosa che vedo”, troppo presto per dare un giudizio definitivo. Riguardo i vostri vecchi album però questo è possibile. Come giudichi per esempio “Crocevia”, un album di sole cover non facilissimo da assimilare, e che invece è stato il vostro successo più grande?
In realtà il progetto era assai ambizioso. Unire in un unico filo conduttore 40 anni di musica d’autore italiana, da Bruno Martino fino a CCCP e Afterhours. Un progetto che ho voluto fortissimamente, nonostante le resistenze di Cesare, che è stato perplesso fin dall’inizio. Un disco per il quale mi sono completamente isolato per alcuni mesi alla ricerca, negli archivi, del materiale più idoneo da utilizzare. Da una prima scelta di cinquanta brani è stata fatta poi la scrematura decisiva, che ha portato ai 13 presenti nell’album.
Sempre in Crocevia ha partecipato Manuel Agnelli degli Afterhours, che in un modo o nell’altro, come produttore, musicista o vocalist è presente in quasi tutti i vostri album. Come spieghi il vostro rapporto decennale, dal momento che le collaborazioni di solito durano lo spazio di una canzone o di un album, mentre voi vi frequentate fin dai primi anni ’90?
Con Manuel ci conosciamo fin dai tempi della Vox Pop (etichetta discografica, n.d.r.) di cui eravamo entrambi soci. Che dire, ci siamo sempre trovati bene, lui ormai è un membro aggiunto dei La Crus, un po’ come avviene per Cristina Donà, che conosciamo da tanto tempo grazie al marito, Marco Sapienza, che è un critico musicale. Cristina tra l’altro ha cantanto con me nell’ultimo album, in una canzone, “Ad occhi chiusi”, che è una delle più belle e apprezzate dai fans.
Siete riusciti a vincere due volte il premio Tenco (1995 e 2001), il premio Ciampi e avete collaborato alla creazione della Fondazione De Andrè. Contemporaneamente siete entrati in classifica con singoli techno-pop, vi siete esibiti nei grandi festival e le vostre canzoni sono spesso ballate in discoteca. Come ti spieghi questa capacità che di certo non manca di esercitare un certo fascino sul grande pubblico?
Penso sia dovuto al fatto che abbiamo cercato sempre di coniugare diversi tipi di stili. Io sono cresciuto col punk rock, però la mia vita è cambiata quando nel 1989 una mia ex ragazza mi ha fatto conoscere Piero Ciampi. Ho avuto quasi una folgorazione. Dopo di allora niente è rimasto uguale. Ciampi, Tenco, Conte e i grandi chansonnier internazionali come Jacques Brel sono stati fondamentali nel percorso musicale dei La Crus. Forse il fatto di avere delle vedute musicali così ampie, che vanno appunto da Iggy Pop a Sergio Endrigo, da Patty Smith a De Andrè in qualche modo rende più poliedrica la nostra musica e di conseguenza ci permette di inserirci in contesti apparentemente lontanissimi tra loro, ma se vai a vedere le nostre radici, assai vicini.
Vi siete esibiti anche in teatro. Nel 2001 quando avete portato in giro per l’Italia una rappresentazione, “La costruzione di un amore”, nella quale musica, poesia e immagini si fondono per raccontare le varie esperienze del rapporto di coppia. Come vi siete trovati?
A dire il vero non è stata la prima volta. Due anni fa abbiamo scelto come cornice alla nostra musica le poesie del poeta spagnolo Pedro Salinas recitate da Ferdinando Bruni (fondatore del teatro dell’Elfo n.d.r.) e le immagini del regista Francesco Frongia. Nel 2000 invece abbiamo partecipato all’evento teatrale “Maratona di Milano” dove le nostre canzoni facevano da colonna sonora a 12 pieces teatrali scritte da Merini, Nove, Scarpa, e Montanari, giusto per citarne alcuni, che avevano ad oggetto le notti milanesi. Ci è sempre piaciuto esibirci nei teatri, e infatti lo abbiamo fatto anche nel corso dei tour di promozione dei dischi, perché riteniamo che la nostra musica si sposi bene con le atmosfere intime, quasi da salotto, che solo un posto piccolo come un teatro può creare.