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VIAGGIARE IN MOUNTAIN BIKE
di Vittorio Serra

Quando si partiva in moto da qualche parte (però solitamente in Africa) il dilemma era sempre lo stesso. Portare un solo corpo macchina e alcuni obbiettivi. Ma quali? I migliori? Si sapeva che fine avrebbero fatto. In un angolo dei bagagli a prendere vibrazioni. Innumerevoli le ottiche a cui si smontavano le ghiere di tenuta. E poi la polvere e spesso anche la sabbia. Sinistri scrocchi ogni volta si cambiava un obiettivo e questi sempre più carichi di sporco trasformato in morchia dall’umidità e dal sudore.

La fine era quasi sempre scontata A casa tornavano solo i rullini faticosamente impressionati, e quindi gelosamente custoditi. La macchina fotografica rimaneva lungo strada, quando andava bene barattata con qualche oggetto che poteva interessare. A volte restava li per un pieno di benzina. Una volta la scambiai per una gallina. Nel 1981, ero in Algeria con la mia Zundapp 125.

Ancora da quelle parti non portavano uso tagliare la gola a tutti gli stranieri che avevano sottomano, comunque non era semplice entrarvi. Per avere il visto bisognava obbligatoriamente cambiare 300 dollari in valuta locale. Che non valeva niente. Dopo vari vagabondaggi dovevo scegliere se spendere gli ultimi dinari rimasti in benzina per riuscire a rientrare in Tunisia o se comprare qualcosa da mangiare. Per una gallina arrosto ci volevano tutti i dinari che mi erano rimasti, e la Canon era ormai inchiodata da 3 giorni. Scambiai con soddisfazione, unico cruccio non riuscii a spuntare anche una birra, che dovetti pagare a mezzo.

Ma ora con le compatte è un’altra cosa. Fanno tutto da sole e possono finire anche sott’acqua. L’importante è che ci sia il rullino e che prendiate bene la mira Difficilmente falliscono messa a fuoco e tempo di esposizione. Una pacchia! Al safari Kastle, gara di mountainbike che si correva in Kenia, presso il Kilimangiaro mi portavo dietro la fida Yashica T4 con ottica Zeiss da 35. Nella tasca posteriore della maglia, fra camere di scorta e banane energetiche ogni tanto la toglievo per fotografare in corsa paesaggi, animali o avversari a seconda dei casi. Mi ero organizzato tutta una tecnica di estrazione e scatto e non è che fossi li per passeggiare, tant’è che arrivai alla fine 4º assoluto e primo di categoria soprattutto vincendo la tappa più dura, quella in salita stroncando allo sprint l’austriaco Meyer e il cileno Plaut, noti ossi duri anche fra i professionisti.

Amo ricordare quella giornata soprattutto per la colossale bevuta di birra che facemmo dopo. Ci riducemmo uno schifo e il giorno dopo non tirò nessuno, giusto lo sprint nel km. finale. La Yashica fece come sempre anche in quelle occasioni tutto il suo dovere. Ebbe comunque anch’essa il suo ultimo giorno. E lo trovò alla vigilia di una prova di campionato invernale di cross country, a Borgo S. Dalmazzo.

Provavo il percorso e ne ero quasi alla fine. Con me anche altri tutti in fila in una veloce sterrata che riportava in paese. La macchina la vidi in tutta la sua stazza mentre spuntando da un entrata privata invadeva tutta la carreggiata. La botta mi fiondò a circa 20 metri mentre la bici sparata verso l’alto ricadde alla fine sul cofano. Dovettero chiamare l’ambulanza perché il pensionato alla guida ebbe un malore e arrivarono pure i carabinieri che fecero i rilievi. Prese la misure considerarono eccessiva la mia andatura e mi beccai anche una multa per eccesso di velocità su velocipede (testuale). Nella caduta mi feci alcune escoriazioni e presi qualche botta. Nulla che non potesse comunque passare con una buona dormita. La bici per chissà quale miracolo rimase pressoché indenne. Non cosi la cara Yashica. La fedele compagna di tante avventure, come al solito al seguito accucciata in una tasca della maglia stavolta si è trovata a fare da cuscinetto nell’impatto. L’ho trovata che ormai rantolava, ha acceso i leds ancora una volta e poi non ha più funzionato.