lavorazione dell’oro | le parole dell’oro a Cagliari e nel Campidano
Il significato più forte e suggestivo dei gioielli sardi sembra appartenere alla favola, ai tempi in cui le fate, nelle domus de janas, intrecciavano sulle stoffe fili dorati abbinandoli a pietre rare e preziose.
La storia narra invece che fin dal periodo nuragico si usava adornare il corpo con manufatti vari, anelli, bracciali, collane, fibule e bottoni.
Ma furono i Fenici ad introdurre l’uso di materiali quali l’oro e l’argento, impreziositi da fini lavorazioni e forgiati in svariate forme simboliche e geometriche. All’oro si aggiunsero il corallo e il diaspro, pietre dure quali i calcedoni e gli onici, le corniole e le ametiste.
Si producevano anelli e bracciali in lamina d’oro e d’argento, pettini, specchietti e astucci usati sia come viatico per l’aldilà che per contenervi le essenze profumate: monili e oggetti d’uso pratico assumevano valenze ornamentali e decorative, propiziatorie e apotropaiche.
Per tutto il periodo della dominazione romana si registra un vuoto compensato solo dai Bizantini i quali introdussero, nel VI sec.d.C., un nuovo gusto più raffinato e astratto che non escludeva comunque motivi e forme d’arte ispirati alla natura: il pavone che ritroviamo ancora oggi impresso sui tappeti e intagliato sulle cassepanche e la fenice raffigurata nelle spille e nelle gancere degli indumenti femminili (quali la gonna e il fazzoletto).
Durante il periodo giudicale andò rafforzandosi la tradizione locale arricchita con il gusto d’oltretirreno, di Genova e di Pisa; alcuni documenti dell’epoca testimoniano di alcuni valenti orafi sardi noti anche nella Penisola.
A partire dal XIV secolo, gli Spagnoli diedero un forte impulso all’oreficeria sarda introducendo la lavorazione “a filigrana”, già introdotta dagli Arabi nel bacino mediterraneo e importata nell’isola dai nuovi dominatori.
Cominciavano a sorgere, soprattutto a Cagliari nella zona del Castello, le prime botteghe orafe: l’odierna via La Marmora si chiamava allora Carrer de los plateros (“Strada degli argentieri”).
Nascevano, inoltre, insieme alle altre corporazioni artigiane, i “gremi”degli orafi e degli argentieri.
Dal gusto barocco diffusosi nel ‘600, ma senza troppo successo in Sardegna, si tornò, nel ‘700, ai più congeniali modelli neoclassici.
Con l’avvento dei Piemontesi, dopo una prima flessione, i “gremi” crebbero: nella prima metà del secolo operavano a Cagliari, nella Ruga de is prateris (l’odierna via Mazzini) venti maestri, aiutati da altrettanti garzoni e apprendisti, i “discenti”.
Dal secondo ‘800 al primo ‘900 crebbe la fama degli artigiani sardi, le opere dei quali si possono ancora ammirare nelle esposizioni e nei musei di molte città italiane e straniere.
Oggi, la tradizione del gioiello sardo è mantenuta in vita dalle numerose scuole e botteghe dell’isola: a Cagliari e a Sassari, a Quartu S.Elena e a Oristano, a Iglesias e a Sinnai, a Nuoro e in molti centri barbaricini (soprattutto Oliena e Dorgali), si mantiene l’impronta di un sapere e di una abilità sempre vivi.
L’oro e i gioielli hanno sempre assolto, nella storia e nella vita quotidiana dei sardi, alla soddisfazione dell’utile e dell’effimero, rappresentando differenti esigenze: la cura di sé (i gioielli per “toeletta” tra cui, unici e bellissimi, gli “ispuligadentes”); la cura nel vestire (bottoni, spille, catene, ganci e gancere); l’ornamento di sé (orecchini, anelli, collane e pendenti), la devozione (amuleti e talismani).