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LA SCENA

L’esilarante carnevale bosano è, soprattutto oggi, momento di coesione comunitaria.
Le strade, le piazze e le sale da ballo sono i luoghi di un variegato complesso scenico.
La trama teatrale si intreccia su libere invenzioni arricchite da ricorrenti riferimenti sessuali, leggibili nell’esibizione di numerosi simboli priapici.

Prima del Giovedì grasso le maschere irrompono nelle case a chiedere la questua di lardazholu, raccogliendo cibarie per il banchetto della sera.

Il martedì grasso, durante il giorno, si canta s’attittidu (il lamento funebre) a Gioldzi ancora neonato, rappresentato da un bamboccio vestito di stracci, spesso rimpiazzato da falli in legno o in cartapesta e da qualche animale domestico.

La sera, dopo un giorno di ironica tristezza, le maschere vestite di bianco, tanti piccoli Gioldzi, si rincorrono l’un l’altro. Quando uno viene fatto prigioniero, l’inseguitore illumina i suoi genitali esclamando: “…Gioldzi! Ciappadu l’appo! Ahi Gioldzi! Damilu a Gioldzi!”.

Inoltre, ancora oggi vengono diffusi, sul modello dei gosos religiosi e dei trallallera, canti satirici che non risparmiano nessuno.
E poi c’è anche il ballo, da su ballu ‘e s’iskoba a sos ballos de sas kadreas (danze locali), da su dilliri e su ballu tundu alle danze “moderne”.

E’un mondo alla rovescia in cui tutto, le regole del buon costume, le norme e le istituzioni sociali vengono messe in ridicolo tramite le più vistose licenziosità sessuali. Anche il linguaggio dimette le vesti del quotidiano per assumere i colori dell’oscenità verbale e della vera e propria dissacrazione.
La narrazione scenica è affidata alla parodia e allo sberleffo.
Insomma, è tutta una pantomima liberatoria che dà sfogo al riso e all’allegria senza briglie.