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Aragonesi e Giudicato di Arborea  | la Sardegna “spagnola”  | Alghero, Carlo V e Filippo II

Alghero città catalana
Ad Alghero nel 1354 gli Aragonesi avevano insediato una colonia di Catalani e nel 1501 la città assunse la qualifica di fedelissima.
Ancora oggi gli algheresi parlano il catalano e numerosi altri aspetti della vita sociale hanno una radice catalana.
La città conserva testimonianze della dominazione aragonese e spagnola nell’impianto urbanistico del nucleo più antico, nelle torri difensive, nei tratti della cinta muraria, nei palazzi ad uso privato ma soprattutto nei pregevoli monumenti religiosi gotici, come la chiesa e il chiostro di San Francesco. 

Il regno di Carlo V
Nel 1516 successe al trono di Ferdinando, Carlo V che dedicò scarso interesse alla Sardegna, favorendo un rafforzamento del ceto feudale sardo: il baroni locali allargarono i propri privilegi, spesso abusandone soprattutto nei confronti del mondo rurale.
Gli abitanti delle coste invece dovettero temere in questo periodo le continue incursioni dei pirati barbareschi, i musulmani delle coste nordafricane, che pur facendo parte dell’impero turco si reggevano autonomamente.
Di fronte a questa minaccia Carlo V attaccò con le sue truppe i porti di Tunisi e di Algeri, ma i risultati furono deludenti perché le scorrerie barbaresche continuarono in tutto il Mediterraneo.

Il regno di Filippo II
Nel 1556 Carlo V abdicò e separò la corona di Spagna da quella imperiale, lasciando la prima al figlio Filippo II ed assegnando al fratello Ferdinando il titolo di Imperatore.
Filippo si impegnò a rimettere ordine in Sardegna, organizzò meglio la burocrazia statale e controllò di più la nobiltà feudale che in passato aveva goduto di un certa libertà.
Grazie al sovrano spagnolo fu anche rafforzato il sistema di torri litoranee per l’avvistamento dei pirati, in parte già esistente.
Ancora oggi le coste dell’isola sono punteggiate da molte di queste torri.
Nel corso del 1600 la Sardegna conobbe due grandi momenti di crisi, segnati dalla pestilenza e dalla carestia.
La peste approdata in Sardegna dalla Catalogna, partì da Alghero per poi diffondersi in tutta l’Isola, risparmiando solo le Barbage e l’Ogliastra.
La carestia del 1680, provocò un nuovo tracollo demografico e una crisi economica e sociale che intaccò gravemente le strutture produttive dell’Isola.
Ma questo non fu tutto, perché in coincidenza con la Guerra dei Trent’Anni contro la Francia e con le crescenti difficoltà finanziarie della corona spagnola, la Sardegna fu investita da una fortissima pressione fiscale.
Il parlamento, facendo gli interessi dei ceti privilegiati, si schierò contro la politica della corte diretta a pretendere dall’Isola il massimo sforzo finanziario.
Queste tensioni diedero luogo a eventi drammatici che culminarono nell’assassinio, a Cagliari nel 1668, di Don Agostino di Castelvì, marchese di Laconi, creatore all’interno dell’aristocrazia sarda di un movimento che si era battuto per l’attribuzione di maggiori poteri al parlamento.
Di fronte al pericolo di una generale rivolta antispagnola tutto il movimento fu represso nel sangue: le teste di amici e parenti del marchese di Laconi furono esposte per anni sulla torre dell’Elefante di Cagliari, a dimostrazione dell’autorità del sovrano e come ammonimento all’aristocrazia sarda.

La lingua
Nel corso del XV e del XVI secolo la lingua e la cultura sarda conobbero importanti mutamenti con l’intenso processo di ispanizzazione: un elemento significativo fu la diffusione della lingua castigliana sia tra le classi dirigenti, sia negli atti amministrativi, sia nella produzione culturale scritta. La lingua sarda però, nelle sue diverse varianti locali, restava la lingua viva delle popolazioni isolane.

Lo stato dell’economia
Dal punto di vista economico la Sardegna viveva un periodo di grave crisi, soprattutto il mondo rurale era in condizioni precarie, sia per l’arretratezza generale dell’agricoltura e della pastorizia, sia per i pesanti tributi che gravavano sui contadini e sui pastori.
Il mondo rurale era soggetto ai tributi dei feudatari, ma era anche costretto al pagamento annuale della decima (la decima parte del raccolto) alla chiesa. La campagne erano anche sfruttate dalle città, che non producevano beni alimentari e che, per legge, avevano il diritto di approvvigionarsi nel loro entroterra rurale.