GRAZIA DELEDDA (1871-1936)

Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di filirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude.
(da Canne al vento)

La memoria, spesso, feconda le pagine dei libri, e memoria significa storia personale, della propria terra e della cultura. Nelle opere della Deledda c’è tutto questo ed è facile leggervi echi e tracce importanti delle storie e delle tradizioni del sua terra. La scrittrice d’altronde opera in ambiente verista e decadente, e le descrizioni dei luoghi e dei personaggi lo confermano.
È importante però sottolineare l’autonomia di fondo della scrittrice, quella marca personale che contraddistingue tutte le sue opere.
Fu un’autodidatta e il suo percorso culturale seguì direttrici personali e non istituzionali. Si trasferì a Roma nel 1900 e ricevette il premio Nobel ventisei anni dopo.
Scrisse tantissimo: romanzi, novelle, diversi articoli. I titoli più famosi sono Elias Portolu (1902), Cenere (1904), Canne al vento (1913), La madre (1920), e Cosima edito postumo nel 1937. Sono solo alcuni di una vastissima produzione scrittoria, tutti accomunati da un nucleo tematico costante, reso plasticamente dall’autrice: la Sardegna.

GIUSEPPE DESSI’ (1909-1979)

Qualche festuca di paglia passava da una vasca all’altra seguendo il filo della corrente. Pensò che la vita è regolata da leggi irreversibili, alle quali gli uomini sono soggetti come i fili di paglia; ma non era questo il suo modo di sentire; non si era mai abbandonato sul filo della corrente, aveva sempre lottato contro il destino.
(da Paese d’ombre)

Dai romanzi dell’esordio La sposa di città (1939), San Silvano (1939), ai romanzi della piena maturità Il disertore (1961), Paese d’ombre (1972) con il quale vinse il premio Strega, Giuseppe Dessì si configura come scrittore di cultura europea.
I suoi romanzi, che trovano terreno fertile in Italia come in vari altri paesi, partono da ambientazioni “isolane”, quindi geograficamente e storicamente legate alla Sardegna, connotandosi però su un piano più generale. Lui stesso più volte disse che ogni punto dell’universo può dirsi centro dell’universo e proprio da questa osservazione si è in grado di capire la scelta di fondo di questo autore. L’isola non è quindi recinto, confine, territorio circoscritto, ma bensì è microcosmo. Mondo dal quale partire per osservare e scrivere, capire e farsi leggere.

 

GAVINO LEDDA (1938)

Dietro il gregge sotto l’ombrellone verde, con il metodo dello zio, nascosto sotto il cappotto per non farlo notare da mio padre, mi avviavo per il pascolo. E sotto le querce, quando la natura si scatenava e il gregge si metteva al riparo, ora non ascoltavo più il suo linguaggio che un tempo mi aveva parlato a lungo. Ora, la natura, la lasciavo parlare per conto suo. Non rispondevo più ai suoi dialetti. E tutto preso da quella dolce ansia che la musica aveva acceso dentro di me, mi mettevo a solfeggiare. Il gelo non lo sentivo più preso dalla mia passione, ceppo acceso che scoppiettava e scintillava sotto l’acqua.
(da Padre padrone. L’educazione di un pastore)

Nel 1975 vince il premio Viareggio il libro Padre padrone. L’educazione di un pastore. L’autore è un giovane scrittore sardo, Gavino Ledda.
Il romanzo ha un enorme successo, viene tradotto in tantissime lingue e i fratelli Taviani ne fanno un film. Gavino Ledda continuerà a scrivere pubblicando due anni dopo Lingua di falce (1977), seguiranno Aurum tellus (1992) e l’opera I cimenti dell’agnello (1995). La sua fama di scrittore comunque rimane ancora oggi legata al suo primo romanzo e al dibattito, talvolta dai toni piuttosto accesi, che ne scaturì.
Nei romanzi degli anni ’70 è già possibile evidenziare i primi elementi di quella ricerca linguistica che diverrà poi, con le opere successive, marca stilistica dello scrittore. Il “gioco” con la parola, l’organizzazione della pagina scritta che si può trasformare in immagine, insieme al bilinguismo (sardo e italiano vengono costantemente affiancati) sono solo alcuni degli esiti cui arriva Ledda.
Il libro allora diventa per lo scrittore sardo un terreno su cui possa esprimere e concretare la voglia di “conoscenza”, la stessa che sin da Padre padrone ha sorretto la sua penna. 

 

SALVATORE SATTA (1902-1975)

C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio.
(da Il giorno del giudizio)

Salvatore Satta è considerato uno dei maggiori giuristi del nostro secolo. Occupò per diversi anni la cattedra di Diritto processuale Civile a Roma. Da questa esperienza nacque il monumentale Commentario, ancora oggi studiato nelle università italiane ed estere. Dopo la sua morte, la famiglia riprese le vecchie carte del giurista, scoprendo, nelle pagine di una vecchia agenda, un manoscritto dal titolo Il giorno del giudizio. Pubblicato dalla Cedam (1977) e poi dall’Adelphi (1979) il libro trovò un grosso consenso tra il pubblico di lettori e critici.
La storia narra la vita di una cittadina sarda, Nuoro, e il suo snodarsi tra eventi privati e pubblici di inizio secolo. I personaggi, la loro psicologia come pure il paesaggio sono oggetto di una minuziosa indagine che però non si riduce mai a semplice bozzetto. L’autore, che non ebbe contatti con gruppi o circoli letterari, alterna ad una scrittura sobria e lineare, uno stile tipicamente Novecentesco: trovano infatti spazio l’indagine psicologica, il flusso di coscienza, la metaletterarietà (per citare alcune caratteristiche) che ritroviamo nei grandi scrittori del nostro secolo. Sulla scia di questi successi, l’Adelphi pubblicò due altre opere di Satta: De profundis (1980) e La veranda (1981).

 

SERGIO ATZENI (1962-1995)

Il vento è alito dell’Africa, prende il fianco la nave che trema ronfando per tenere la rotta, non è vento cattivo, il mare è piatto e silenzioso. Ruggero si accorge che il cane ha smesso di ululare. Tutto è silenzio attorno, è notte fonda. La nave ha angoli bui, oscurità, meandri. Luce in un luogo soltanto, un’isola nel nero, il ponte di comando, sotto la bandiera, un grande palco vuoto, bianco di fari.
(da Il quinto passo è l’addio)

Morto prematuramente nel 1995, Sergio Atzeni, è da considerarsi tra i più grandi talenti letterari apparsi sulla scena nazionale degli ultimi anni. Nei suoi romanzi si ritrovano la storia e la fantasia, i miti e i personaggi di una società che può essere definita come “sarda” ma che male si adatta a questa unica etichetta. Il respiro dei suoi romanzi è, infatti, quello dell’umanità tutta, universale è il suo sguardo sul mondo. L’Apologo del giudice bandito (1986), Il figlio di Bakunin (1991), Il quinto passo è l’addio (1995), e i due romanzi editi postumi Passavamo sulla terra leggeri (1996) e Bellas Mariposas (1996) sono nati da una penna che gioca con la pagina, col contenuto e con la lingua che lo esprime; forse è per questo “entusiasmo”, per la vitalità che è l’aspirazione stessa dei romanzi che, ciò che diceva Sergio Atzeni per se stesso, si avvera anche per il suo Libro: “sono sardo, sono italiano, sono europeo”.